Deformità

b7bb0f3afc327e9024d6f46460ca747b.jpg

Luca l’aveva vista morire davanti a sé.

Le sirene dell’ambulanza riecheggiano in lontananza come urla di dolore. I soccorsi stavano arrivando, ma non ci sarebbe stato nulla da fare. Dal campanile spiovente in mattoni rossi che domina il centro del corso suonano tre colpi sordi di campana. La calura si infiltra nella pelle di Luca come tanti piccoli scarafaggi. Getta un’occhiata fugace da sopra la spalla e scorge con la coda dell’occhio un ammasso di persone curiose, sparpagliate nei pressi del corpo. Deglutisce con fatica. Ha come la sensazione di poter svenire da un momento all’altro. Giunge a una fontanella e si bagna la testa. Il getto è potente sulla sua nuca, schizzi d’acqua che si disperdono frenetici come tante piccole schegge.

Lei sta per attraversare la strada e sembra spensierata. Ha lunghi capelli castani che formano tante piccole onde, porta degli occhiali da sole rotondi e ha le labbra distese in una forma che ricorda quella di un sorriso appena accennato, inconsapevole.

Luca si ispeziona la maglietta e i jeans chiazzati d’acqua. Ora si sente meglio, un leggero senso di sollievo gli si accumula al centro del petto. I suoi pensieri recuperano un po’ di quella razionalità smarrita alla vista dell’orribile incidente.

Lei compie un passo, poi un altro e un altro ancora. È quasi a metà delle strisce pedonali, il suo sguardo mira dritto verso il bar in cui Luca è seduto a bere un caffè, e la sta sbirciando tra le pagine di un quotidiano.

La maglietta bagnata gli si attacca alla pelle come una ventosa nei punti in cui è zuppa d’acqua. Con le dita se la distacca dal petto e la scuote compiendo un movimento meccanico del polso.

Nel frattempo riprende a camminare, incrociando gli sguardi curiosi e circospetti delle persone che incontra, e che mirano alla direzione opposta alla sua. Tutta quella gente si starà domandando cosa sia successo, è normale, tutti se lo chiedono alla vista di un’ambulanza ferma in un luogo pubblico, con altrettanti gruppi di persone che sostano nei dintorni in cerca di risposte. L’uomo prova una sorta di banale eccitazione mista a una frivola curiosità in momenti come quelli. Ha bisogno di vedere, di capire, brama di poter riferire il suo dispiacere al vicino e al contempo ringrazia qualcuno lassù nel cielo per non essere lui quello a cui è capitato il fattaccio. Prova un distacco gratificante osservando la vittima, un distacco che non si misura in metri bensì in sensazioni.

Più la vittima è sconosciuta, più il distacco è maggiore e ricco di emozioni che esaltano e rendono gloria alla condizione di superiorità e sicurezza della persona esterna; al contrario, se la vittima è una persona che si conosce, o peggio ancora una persona vicina, un famigliare, il distacco si riduce sensibilmente, e la condizione della vittima tende a combaciare con quella della persona esterna fino a diventarne un tutt’uno.

Luca non riesce a staccarle gli occhi di dosso. È ipnotizzato dalla suadente eleganza del suo portamento. La sua falcata ricorda quella di una modella che sfila in passerella. Il vento le scompiglia i capelli per un attimo. L’attimo successivo una Jeep la centra in pieno a tutta velocità.

Luca cammina piano, respira grandi boccate di aria secca e umida. Cerca di controllare l’impulso di voltarsi nuovamente indietro. Poi cede, e nello stesso momento l’urlo straziante di una donna si leva in alto da lontano, inaspettato come il rombo di un tuono in un cielo estivo.

Immagina la madre di quella ragazza. Immagina il senso di impotenza che la sta devastando di fronte al corpo di sua figlia. Immagina i giorni a seguire e la lotta contro l’accettazione di una realtà ancora troppo surreale da essere considerata come vera. Una fantasia, un sogno lucido, un evento distante, sconosciuto, non previsto in nessun mondo esistente possibile.

Si sente la testa girare, gli sale un po’ di nausea, si ferma e si va a sedere su una panchina nelle vicinanze. È occupata per metà da due signore anziane che si stanno facendo aria con un ventaglio. Indossano delle vestaglie lunghe a righe e a pallini, il petto scoperto sino all’altezza di un seno cadente e abbondante. Luca osserva la pelle sudata e appiccicosa delle due donne, capelli corti e ricci attaccati alla fronte e la bocche a fessura che esalano sbuffi di aria tiepida. Sono in silenzio, ed entrambe hanno uno sguardo perso che punta verso il negozio di vestiario di fronte. Non si curano di ciò che sta succedendo in fondo alla via. Diventare anziani significa essere costretti ad accettare la propria condizione, con tutto quello che questa comporta: un corpo rugoso, piccoli o grandi acciacchi, una vistosa diminuzione delle energie e la contemplazione di un mondo che non è più il tuo e che muta continuamente a un ritmo schizofrenico. Si prova la sensazione di essere tagliati fuori. E più gli anni passano, più questa sensazione diventa tangibile sino a quando la malattia e la morte ti assalgono, e spazzano via quel che rimaneva dei tuoi sforzi tesi a restare vivo e umano e partecipe del mondo. A quelle due anziane signore sedute sulla panchina a fianco di Luca, non interessa di affacciarsi alla finestra della morte e della disgrazia per compiacere alla propria esistenza, così che tutti i loro fallimenti e le loro frustrazioni diventino banalità da riuscire a essere ignorate per un tempo determinato. Proveranno dispiacere, pena, sollecitudine, ma non prederanno parte a quel teatrino di curiosi. L’avrebbero potuto fare se fossero state giovani. È una viva possibilità che si sarebbe potuta concretizzare, ma anche no. Tuttavia, nello stato attuale delle cose, le due donne hanno alle spalle una vita che non possono più tentare di rivivere: non possono più reinventarsi, cambiare, diventare qualcuno che si desidera di essere e che non si ha mai avuto il coraggio di farlo. Tutti i loro fallimenti sono destinati a essere accettati e messi da parte una volta per tutte, e se risorgono a tormentare i loro animi, sono presto scacciati dalla amara consapevolezza che nel loro futuro non ci saranno più giorni in cui potersi riscattare. Ci sarà unicamente staticità e l’incontro fortuito o incombente con la fine.

Un ultimo sguardo alle due donne sedute sulla panchina, e Luca si rimette in piedi e continua la sua marcia tesa ad allontanarsi il più possibile dal luogo dell’accaduto. L’aria secca si palesa in sporadiche folate che profumano di foglie e fiori.

Lo stridore di una sterzata e un botto secco, un suono simile a quello di un pallone di tela che scoppia. Il corpo della giovane donna viene spazzato via senza che Luca abbia il tempo di accorgersene. Rimane paralizzato sulla sedia, mentre alcune persone nei paraggi gridano e chiamano i soccorsi e si avvicinano al corpo della ragazza. Dalla jeep scende un uomo di mezz’età. Luca lo osserva portarsi le mani sul viso, poi sulla testa, tormentarsi come un forsennato, gli occhi dilaniati e la bocca contorta. Quando Luca si alza dalla sedia, la vede.

Il corpo dista almeno una decina di metri da lui. Non capisce se la ragazza sia ancora viva, se respira, se compie piccoli movimenti tesi a chiedere aiuto.

Luca si avvicina, il respiro in affanno, le persone cominciano ad accalcarsi, schiene piegate e volti paralizzati.

Una ragazza vomita nelle vicinanze. Chiede scusa senza riferirsi a qualcuno in particolare, e prosegue a camminare pallida in viso.

Luca sente un uomo sulla cinquantina, alto e con un paio di baffi folti che gli si distendono sul labbro superiore fino a coprirlo del tutto, parlare al telefono con sua moglie: «Ero proprio davanti amore, stavo per attraversare anch’io, è stato orribile, la ragazza ora è stesa a terra, sembra morta, potevo morire amore, potevo morire anch’io».

Luca lo sorpassa ed è sempre più vicino al corpo di lei. Nota che l’uomo che si trovava alla guida dell’auto è piombato in un profondo stato di shock. Si è seduto sul bordo del marciapiede. È cadaverico, l’espressione contratta in una smorfia che rasenta la disperazione, gli occhi vacui e la fronte imperlata di sudore. Non parla. Immobile, fissa il vuoto in una maniera così intensa da poter essere scambiato per una statua di cera.

Ora Luca si trova a poca distanza dal corpo. Non ci mette molto a comprendere che per quella ragazza è tutto finito. Tutto si è risolto in una manciata di secondi. Probabilmente non si è nemmeno accorta che stava per morire. Nel caso contrario, quei pochi secondi sfuggevoli che avevano preceduto allo schianto erano stato indecifrabili e impossibili da elaborare.

Luca cammina attorno al corpo tenendosi a debita distanza. Un uomo che sostiene di essere un infermiere è in ginocchio a fianco della donna, urla di allontanarsi il più possibile.

Lo sguardo di Luca si poggia sul viso di lei. Gli occhi sono spalancati come quelli di una persona che viene spaventata all’improvviso. Rasentano l’orrore, il terrore, la paura di morire. La sua mascella non sembra più essere in asse. La bocca è spalancata e il mento tende verso il basso, sfiora il cemento. Il suo viso è deforme. Il volto di quella giovane ragazza affascinante, dalla camminata cadenzata, morbida ed elegante, che pochi minuti prima Luca stava osservando con occhi che tradivano un’ombra di desiderio, ora è scomposto, osceno, il palmo della mano ossuto della morte le si è posato sopra per derubarla della vita, l’attimo seguente il suo viso si è rotto in mille pezzi.

L’urlo di un passante desta Luca dallo stato di profonda trance in cui era piombato, mentre osservava il volto della giovane ragazza.

La sua mente fugge dalla tenebra che si stava insinuando lentamente, strisciando come un serpente velenoso. Il volto squadrato di lei è piegato verso di lui. Una richiesta di aiuto, una maledizione, un messaggio che lo invita a ricordarsi di lei.

Luca si volta di schiena. Si allontana dondolante, le forze lo hanno abbandonato.

Gli occhi di lei  pesano sulle sue spalle come macigni. Sente di dover urlare a squarciagola e liberarsi di qualcosa di indefinito che gli si sta accumulando dentro al corpo come spazzatura.

Si volta nuovamente all’indietro. La calca di persone è aumentata. Schiene su schiene. Volti spaventati, increduli, sbigottiti. Movimenti frenetici con le mani, passi nervosi uniti a parole appena sussurrate a se stessi.

Luca distoglie lo sguardo dalle persone lì attorno e lo punta in direzione del cielo. Osserva due nuvole bianche, gonfie e distese sullo sfondo di un azzurro pallido.

Dopo qualche secondo, le stesse nuvole gli sembrano stare assumendo la forma di due occhi giganti.

Luca si strofina la faccia. Rialza lo sguardo. Le nuvole ora si sono unite in un’unica bocca storta e spalancata.

L’istinto di urlare. Luca lo trattiene smorzando il respiro.

Intravede la sagoma di una fontanella in lontananza.

Necessita di bagnarsi la testa. Gli spessi raggi del sole lo stanno uccidendo.

L’anguria

Io e Mario stiamo bevendo una birra seduti nel suo giardino. Sono le quattro di pomeriggio e il sole mi sta cuocendo la testa. Mario mi sta parlando da mezz’ora ininterrottamente, e ogni volta che tento di alzarmi dalla sedia a sdraio cambia argomento.
Arriva a parlarmi di una donna che non è sua moglie. Si chiama Angela, ha una trentina d’anni e ha le tette enormi.
Mi incuriosisco. Ora Mario ha la mia attenzione.
«Ci siamo conosciuti in posta. Stavamo seduti l’uno di fianco all’altra, in attesa del nostro turno. Lei ha un bel profumo. Glielo faccio notare e mi sorride, mi ringrazia, e mi dice che le piacciono i miei capelli lunghi. Sembrano morbidi, dice. Indossava una camicetta che stava per esplodere. I bottoni all’altezza del seno dovevano saltarle da un momento all’altro.
Inizio a parlarci, le chiedo cosa fa nella vita. Mi dice che fa la commessa. Io le dico che lavoro in un concessionario. Al che, mi dice che le piacciono le macchine sportive».
Mario ha una Mercedes decappottabile d’epoca: la guidava suo padre e al suo fianco sedeva sua madre. Entrambi sono morti.
«Le dico che ho una macchina d’epoca, sportiva. Mi dice che le piacerebbe farci un giro, un giorno. Scatta il numero nel tabellone elettronico ed è il suo. Mi invita ad aspettarla.
La osservo ondeggiare i fianchi sino allo sportello. Ha un paio di gambe e un culo da togliere il fiato. Sposta il peso su una gamba, poi sull’altra, e si guarda intorno aggiustandosi i capelli.
Arriva il mio turno. Mi alzo e vado allo sportello. Mi trovo davanti una donna sulla sessantina, brutta e con l’alitosi. Gracchia, gracchia e gracchia.
La vecchia mi dà il resto, mi giro, e Angela non è più allo sportello e non è nemmeno seduta tra le fila di seggiole dove ci siamo conosciuti.
Mi cade tutto. In quel momento mi cade tutto addosso.
Angela è fuori, appena sotto i gradini della posta. Mi sento leggero come una piuma, mi accendo una sigaretta e me la gusto per tutto il tragitto che ci conduce a un bar.
Oggi è il suo giorno libero, mi dice. Le dico che io attacco alle due di pomeriggio.
Al caffè siamo seduti di fronte e mi guarda la fede al dito. Sei sposato, mi dice.
Le rispondo che lo sono. Lei mi sorride e mi fa notare che potrebbe essere un problema fare un giro in macchina. Io le sorrido e le rispondo che non lo è». «Hai capito il tipo di sorriso che le ho rivolto no?», mi chiede Mario.
Gli dico di continuare, che a breve sarebbero arrivate le nostre mogli con l’anguria.
«Mi domanda se ho figli e le rispondo che non ho figli. A questo punto le chiedo se lei è impegnata e se ha figli a sua volta. Mi risponde che è in cerca».
Mario mi dice che una risposta del genere esce dalla bocca di quelle che lo vogliono tutto e in fondo.
Non sono d’accordo, ma conosco Mario da quando mia moglie trova simpatica e reputa una buona amica la sua, e ormai ci ho fatto il callo, a Mario.
Gli rivolgo un sorriso tirato, nascondendo alla meno peggio la tristezza che mi avevano trasmesso le sue parole. Gli dico di continuare.
«Mi dice che deve andare, che deve sbrigare altre commissioni. Le rispondo che va bene, che è stato un piacere, e vado a pagare i caffè. Lei mi aspetta fuori, e mentre attendo di pagare mi giro due volte e le guardo il culo. È sodo e sembra di marmo. Pago, esco, e senza che le dica niente mi dice che potrei segnarmi il suo numero, se mi andasse.
Agguanto il telefono e non me lo faccio ripetere».
Rifletto sul fatto che Mario non mi stia raccontando tutta la verità, ma non lo interrompo con inutili interrogativi.
Mario si alza e mi dice di aspettarlo, che arriva. Ritorna e ha in mano il telefono.
Scorre tra i contatti e ne seleziona uno nominato “Sandro”. Penso che non ci ho ancora fatto il callo, con Mario.
Apre la conversazione e mi fa vedere la foto. È una gran bionda. Poi scorre la chat e mi fa leggere alcuni messaggi. Leggo che a lei farebbe piacere rivederlo. Leggo che lui il prossimo weekend potrebbe fingere di andare a un raduno di auto d’epoca, che sua moglie li odia e non lo accompagna più. Leggo che potrebbero andare fuori città per il weekend. Lei scrive che ci potrebbe stare, ma che forse sta correndo troppo.
Scorre un pochino, e mi fa di nuovo leggere. Lei gli scrive che potrebbero rivedersi durante la settimana. Mario le risponde al bar dell’altra volta, lo stesso giorno della scorsa volta.
Mario assume un’espressione orgogliosa e mi fa intendere, farfugliando, che di lui e Angela sono l’unico a esserne al corrente.
Gli consiglio di fare attenzione e lo rassicuro. Non voglio parlargli di morale. È amico mio perché mia moglie ama la compagnia di quella di Mario.
Mi ispeziono le braccia arrossate e mi alzo una manica della maglietta. Ho il segno e domani starò uno schifo.
I passi delle nostre mogli si mescolano tra loro. Sporgo il capo a lato dello sdraio e le osservo trotterellare sino al gazebo.
La moglie di Mario appoggia un’anguria enorme sul tavolo. La mia ha per le mani dei piatti di carta e un grosso coltello.
Ci sorridono e ci chiedono che cosa combiniamo.
«Niente», risponde Mario dandosi uno slancio dalla sedia a sdraio. «Una bella fetta d’anguria e poi tutti a far l’amore», dice. Ridono tutti.
Io no.

Al ristorante

Marco e Diletta siedono l’uno di fronte all’altra. A separarli c’è un tavolo apparecchiato, coperto da una tovaglia bianca a doppio strato. I tovaglioli ricamati da ghirigori, l’argenteria luccicante, la bottiglia di vino, la mezza naturale, il calice mezzo pieno di rosso di Marco, vuoto quello di Diletta.
Il cameriere si avvicina a loro schiarendosi la gola e scocca un’occhiata dapprima a Diletta, poi a Marco.
«Signori, possiamo ordinare?». La camicia abbottonata sino al collo, il viso paonazzo, un ciuffo di capelli ribelli che tradisce la sua capigliatura ingessata.
Marco tiene il capo chino sul menù sfogliandolo distrattamente, e alzando la punta degli occhi scruta Diletta che si sta versando dell’acqua nel bicchiere immacolato.
«Ripasso tra poco», dice il cameriere. Gira i tacchi e cammina per la sala dondolando.
«Marco ma sei scemo?». Diletta si attorciglia un dito in una ciocca di capelli.
«Non mi sono ancora deciso. Pensavo di prendere il filetto, ma mi è venuta voglia di un primo. Scusa».
Diletta gira il capo alla sua destra: c’è un omuncolo, seduto al tavolo poco a fianco del loro. Ha i capelli folti e argentei, indossa una camicia bianca e una cravatta a farfalla nera. Mastica lentamente arricciando le labbra, e di tanto in tanto la sua mandibola si sloga, distorcendogli la bocca. Serrando la mano, si assesta un colpetto secco alla mascella e ricomincia a ruminare con lo stesso ritmo.
Tiene lo sguardo fermo nel vuoto, gli avambracci magri e grinzi ben appoggiati al tavolo e impugna la forchetta e il coltello formando un angolo acuto.
Si mantiene fisso senza flettere un arto fintanto che non ingurgita l’ultimo pezzo di cibo ridotto in poltiglia. Accompagna il coltello e la forchetta alla bistecca al sangue e affonda bruscamente la forchetta nella carne: gocce di sangue slavato rotolano giù sino a striare il piatto.
«Bene, prendo i tagliolini, ho deciso. Tu, tesoro?».
Marco punta gli occhi sul busto di Diletta: indossa un vestito verde acqua con entrambe le spalline che le penzolano giù. Aggancia il calice dallo stelo e ingolla il vino in un sorso. Si pulisce le labbra con la mano e si guarda intorno.
Il cameriere affretta il passo ciondolando, schiarendosi nuovamente la gola e schivando agilmente un bambino che cammina a zonzo in mezzo alla sala. L’omuncolo attira l’attenzione del cameriere roteando il coltello in aria. Il cameriere spezza il passo e indietreggia accostandosi al suo tavolo.
Marco afferra il menù e lo esibisce irritato, passandoselo da una mano all’altra.
«Arriva. Tranquillo». Diletta gli scocca un’occhiata annoiata.
«Ho fame, sant’Iddio».
«Avresti potuto ordinare prima senza perderti in un bicchier d’acqua, al solito». Diletta sospira, e volge la sua attenzione al piccolo uomo e al cameriere.
L’omuncolo si complimenta con il cameriere per l’ottimo cibo e adagia le posate sul piatto. Chiede gentilmente il dessert e un caffè. Il cameriere annota nel taccuino, sbircia Marco e Diletta, ripone la penna e il taccuino nel taschino della camicia abbottonata sino al collo e porta via il piatto con gli avanzi.
«Pazzesco. Prima e ultima volta che siedo su questa maledetta sedia»
«Arriva. Avevi solo da ordinare a tempo debito»
«Ancora? La vuoi smettere? Cristo, sei noiosa»
«E poi, dico io, un cameriere solo…Possibile?»
«A quanto pare. Eccolo».
Le sopracciglia di Marco si distendono, il viso diviene rilassato, le labbra si stringono sottili.
«Signori, perdonate l’attesa», dice il cameriere. Con l’indice uncina il colletto della camicia e deglutisce sonoramente.
«Si figuri. Per me il piccione, grazie.», dice Diletta.
Marco accavalla le gambe, poggia una mano sul tavolo e si passa l’altra dietro la nuca.
«Io prendo i tagliolini della casa. La pasta ben cotta ma non troppo. Non scotta, ecco».
Marco si versa un bicchiere distogliendo lo sguardo dal cameriere.
«Grazie», dice il cameriere.
Diletta gli sorride senza mostrare i denti.
«Cafone di uno»
«Cafone lui, a farmi aspettare così tanto».
Marco ingolla tutto il vino e si versa nervosamente un altro bicchiere. Tende la bottiglia al calice di Diletta e mentre fa per versarle il vino, lei copre il bordo col palmo della mano.
«Neanche un bicchiere?».
Diletta appoggia la punta della lingua tra i denti e la fa schioccare scuotendo il capo. Marco alza le sopracciglia e inarca il labbro inferiore; poggia la bottiglia sul tavolo, scrolla il polso sinistro e getta un’occhiata fugace all’orologio.
Alle spalle di Diletta, intravede una signora con un paio di brillanti ai lobi: sbadiglia dimenticandosi la mano davanti alla bocca. I suoi denti sono giallognoli ma dritti. L’uomo di fronte alla signora è completamente calvo e ha tre nei vistosi sul cocuzzolo della testa. La signora gli lancia un’occhiata, inarcando un sopracciglio. Marco le accenna un sorriso amichevole che la signora non contraccambia. Si sporge verso il marito e gli mormora qualcosa. La scollatura del suo vestito mette in risalto un seno floscio.
Marco si bagna la bocca con un sorso di vino, e si concentra su Diletta.
«Tesoro, te la sei presa davvero?»
Diletta fa scorrere il pollice e l’indice sugli zigomi, e dalla borsa tira fuori uno specchietto.
«No, non me la prendo mai, lo sai», dice Diletta, controllandosi il trucco.
«Sembri infastidita»
«Senti questa!» esclama Diletta, riponendo lo specchietto nella borsa e scrollandosi i capelli con una mano.
«Ti ricordi di Barbara? La mia nuova collega, te l’ho presentata qualche mese fa mi pare, alla festa del mio compleanno penso. Vabbè, comunque ti ricordi? Ecco. Si è trovata un cubano. Uno di quelli con le spalle grosse, un gran bel petto, tutto rasato, tutto abbronzato…cioè abbronzato, scuro! Ecco, e tradisce il marito…ti ricordi del marito, no? Luciano, quello bassino e un po’ tarchiato, quasi la fotocopia di Barbara». Diletta si lascia scappare una risatina nasale.
«Comunque, lo tradisce con questo cubano molto più giovane di lei, e lo fanno sempre in macchina.»
«Beh, buffo. Trovatelo anche tu un cubano, tesoro.», dice Marco a denti stretti.
«Smettila. Quando le ho chiesto perché proprio in macchina, mi ha risposto che la fa sentire giovane. La fa ritornare ai tempi delle scappatelle…al che ho pensato: scappatelle? Tu Barbara, le scappatelle? Diavolo!». Marco sorride ciondolando il capo; Diletta ride lasciando intravedere i denti: un incisivo è macchiato di rossetto.
«Mi hai mai tradito, Diletta?». Marco si versa quel che rimane della bottiglia di vino lasciandola gocciolare sino all’ultimo nel bicchiere.
«Scusa?». Diletta afferra le posate e le strofina con la punta delle dita.
Il cameriere giunge al tavolo di Marco e Diletta e serve entrambe le portate.
«Se mi può portare anche un’altra bottiglia di vino. Lo stesso», dice Marco fiutando il piatto di pasta.
«Subito», dice il cameriere.
Marco arrotola un po’ di pasta alla forchetta e se la porta alla bocca.
«Mi hai mai tradito, Diletta?», farfuglia Marco.
Il cameriere poggia le due bottiglie di vino sul tavolo e si allontana a passo lento.
Marco versa del vino nel calice di Diletta e poi nel suo.
«Brindiamo», dice Diletta.
«Va bene. A cosa brindiamo?», dice Marco.
«Alla vita», dice Diletta.
«Alla vita», dice Marco a denti stretti.
Diletta punta lo sguardo all’omuncolo a fianco, intenta a tagliare il piccione distrattamente. L’omuncolo sta consumando il dessert e ha le labbra sporche di cioccolato.
L’omuncolo mantiene lo sguardo privo di tono nel vuoto, e le palpebre cadenti e raggrinzite gli conferiscono un’aria stolta.
Diletta ridacchia a bocca piena, dà un colpetto ai piedi di Marco e gli indica il signore con un lesto movimento degli occhi.
«Mi fa ridere», sussurra Diletta.
«Mi hai mai tradito?», le risponde Marco, ingurgitando un boccone e portandosi il calice alla bocca.
«La vuoi smettere? Ti prego, siamo a cena. Proprio ora certe sciocchezze?»
«Voglio saperlo ora. Dimmi la verità, non mi arrabbio»
«Ah, non ti arrabbi?». Diletta alza il tono della voce: è squillante e puerile.
L’omuncolo sbatte il cucchiaio sul piatto rigato di cioccolato. Agguanta il tovagliolo e se lo strofina sulla bocca pacatamente.
Diletta lo osserva e ridacchia. Fa un sorso di vino che le va di traverso e tossisce.
«Così impari», dice Marco.
«Vai al diavolo», mormora Diletta, allungando il collo verso Marco.
L’omuncolo si porta indietro con la sedia, appoggia le mani al tavolo e si erge in piedi.
Marco e Diletta girano il capo verso l’omuncolo: è basso, curvo e ha i fianchi larghi. Porta dei calzoni di flanella che gli coprono quasi interamente le scarpe di cuoio.
Marco distoglie lo sguardo dall’uomo. Lancia delle occhiate imbarazzate a Diletta, senza che lei se ne accorga.
«Smettila», sussurra Marco a Diletta.
Diletta si porta un boccone alla bocca, e mentre mastica le labbra le si dipingono in un sorriso di scherno.
«Diletta, rispondimi».
«A cosa? Dio, Marco, non ti ho mai tradito, mai.»
«Puoi smetterla ora?». Gli occhi di Diletta vibrano all’insù.
L’omuncolo si aggiusta il nodo della cravatta e si accosta lentamente al tavolo di Marco e Diletta.
Diletta incrocia il suo sguardo, arriccia le sopracciglia e si bagna le labbra con un sorso di vino.
Marco alza gli occhi dal piatto e vede il signore, basso, curvo, dai fianchi larghi accanto al loro tavolo. Tiene le braccia a peso morto lungo i fianchi, le spalle strette, il collo infossato. Gli occhi minuscoli, persi nel vuoto. Il suo volto appare privo di tono muscolare.
«Scusi?», dice Marco.
L’omuncolo tiene lo sguardo puntato alla parete bianca a fianco del tavolo di Marco e Diletta.
«Signore?», dice Marco passandosi l’indice sulla guancia.
«Sua moglie è una sgualdrina».
L’omuncolo sorride mestamente alla parete per qualche secondo e girandosi di spalle con compostezza, torna a sedersi al suo tavolo.
C’è la tazzina del caffè, il cucchiaino, la bustina di zucchero e lo scontrino.
Si siede pacatamente, afferra la bustina di zucchero, la strappa sfilando il bordino e ne versa metà nel caffè.
Si accinge a mescolare, il sorriso mesto stampato sulle labbra.